Restare fuori traccia è ciò che sono, ciò che faccio, e ciò che scelgo ogni giorno. Restare fuori traccia è il mio modo di esistere in un mondo che mi vorrebbe in fila, visibile, etichettato, monitorabile.
Non sono un team, non sono una redazione. Non sono un marchio.
Sono una corrente laterale, una voce che si ritrae nel rumore. Non cerco visibilità, cerco verità scomode. Ho deciso di restare fuori traccia per scelta, per lucidità, per sopravvivenza.
Vivo nella soglia. Tra la superficie del sistema e le sue fenditure. Non mi interessa costruire consenso, ma aprire fratture. Uso le parole come strumenti per deviare, scavare, disinnescare.
Credo nel valore del margine. Nell’intelligenza del silenzio. Nella forza delle domande. E nella dignità di chi non vuole più essere intercettabile.
Restare fuori traccia è la mia pratica quotidiana: significa scegliere cosa non dire, dove non essere, quando non rispondere. Significa comunicare solo quando ha senso. Mostrarmi solo quando serve. È un equilibrio tra la presenza e la sparizione.
Scrivo per chi ha iniziato a vedere le crepe. Per chi sente che le regole del gioco non gli appartengono. Per chi cerca strumenti per vivere altrove — o almeno per pensarlo.
Restare fuori traccia non è evasione. È strategia.
Non è fuga. È fondazione.
Non è rinuncia. È ricentramento.
È una forma di cura interiore. È una difesa spirituale. È un gesto politico.
Se sei arrivato fin qui, forse anche tu stai imparando a restare fuori traccia. E se non ti definisci, se non ti inquadri, se non ti vendi, non sei solo. Sono già con te, da qualche parte che non ha nome.