La parola yeti evoca subito una figura ingombrante e inafferrabile. Per molti è una creatura leggendaria, un’ombra pelosa nei racconti di montagna, un’invenzione folklorica buona per i documentari pseudoscientifici. Ma la parola yeti contiene molto più di una suggestione esotica. È il nome di una presenza che non si lascia vedere ma che non smette di essere cercata. Una figura che vive nei margini tra reale e simbolico, tra l’animale e l’umano, tra la natura estrema e l’immaginazione. Va riabilitata perché porta con sé l’idea stessa del mistero che resiste, della domanda che cammina accanto a noi senza risposta definitiva.
Una creatura fatta d’assenza
Lo yeti non si mostra, ma lascia impronte. Non parla, ma abita racconti. Non si lascia catturare, ma guida spedizioni. La parola yeti indica qualcosa che esiste attraverso l’assenza, che prende forma nei tentativi di trovarlo. È una creatura che genera narrazione, che costringe a camminare, a scalare, a cercare. E in questo diventa simbolo di tutti quegli interrogativi che non si fanno afferrare, ma che continuano a tracciare direzioni.
Il suo valore non è nella prova della sua esistenza, ma nel fatto che continuiamo a interrogarci su di essa.
Oltre la creatura: l’archetipo
Ogni cultura ha il suo yeti. Una figura ai margini, che vive nei luoghi estremi, che sfugge alla tassonomia ufficiale. La parola yeti può essere letta come archetipo: il guardiano delle soglie, l’altro ancestrale, l’essere che ci ricorda che non tutto è stato nominato, schedato, razionalizzato. È il simbolo di ciò che esiste oltre la mappa. Di ciò che non risponde alla logica, ma resiste al confine tra il visibile e l’ignoto.
Riabilitarla significa restituire legittimità a ciò che non possiamo spiegare, ma che continua a parlarci.
Silenzio, neve, orma
Lo yeti si muove in ambienti dove l’essere umano fatica a stare. Altitudine, gelo, vento. La parola yeti racchiude anche questo paesaggio: la durezza del contesto in cui compare, la difficoltà del contatto, la solitudine dell’incontro. È il nome che diamo a ciò che appare dove non ci sentiamo più padroni. Dove il linguaggio vacilla, dove il corpo si misura con il limite.
Non è un mostro. È una figura che ci mette in crisi, perché resiste ai nostri strumenti. Ed è proprio per questo che serve.
L’invisibile che fa paura
Il bisogno di ridicolizzare lo yeti nasce spesso dal disagio che provoca. Non poterlo classificare, non poterlo addomesticare, lo rende scomodo. La parola yeti non inquieta perché nomina qualcosa di pericoloso, ma perché mette in discussione il nostro bisogno di certezza. È un promemoria continuo: il mondo non è del tutto conosciuto, e noi non siamo al centro di tutto.
Restituirla al linguaggio significa anche accettare di fare pace con ciò che ci sfugge. Non tutto deve essere illuminato per esistere.
Una parola per ciò che resta oltre
Riabilitare la parola yeti non è un esercizio folklorico. È un gesto linguistico per riconoscere che il mistero ha ancora un posto nella nostra immaginazione. Che esistono presenze che non si fanno documentare ma che continuano a lasciare tracce. Che l’enigma, quando non è ostile, può diventare guida. E che alcuni nomi servono proprio per non chiudere il discorso, ma per tenerlo aperto.
Lo yeti, in fondo, non è importante perché esiste. È importante perché continuiamo a camminare per sapere se esiste.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #195
🔤 La parola yeti non descrive solo una creatura. È il nome che diamo a tutto ciò che ci osserva da lontano, e ci invita a non smettere di cercare.