Riabilitiamo la parola vacillamento

Riabilitiamo la parola vacillamento


La parola vacillamento è spesso trattata con imbarazzo o con sospetto. Indica esitazione, debolezza, perdita di equilibrio. Ma la parola vacillamento non merita di essere archiviata tra i difetti da correggere. È un termine che custodisce una dinamica interiore preziosa: quella del momento in cui tutto si muove, ma ancora non crolla. È lo spazio tra il prima e il dopo, tra la certezza che traballa e una nuova forma che non è ancora nata. Riabilitarla non significa glorificare l’instabilità, ma riconoscerla come una fase inevitabile e spesso feconda dell’esperienza umana.

Il momento in cui qualcosa si rompe (ma non del tutto)

Vacillare non è cadere. È trovarsi in bilico. È sentire che il terreno noto non regge più, ma senza essere ancora precipitati. La parola vacillamento descrive questo stato di tensione, in cui il corpo, la mente o l’identità non trovano più un appoggio stabile. È un passaggio che nessuno cerca, ma che tutti attraversano. E che spesso decide più del crollo stesso. Perché è lì, nel vacillare, che si mette in discussione ciò che sembrava sicuro. Ed è lì che si apre la possibilità di un cambiamento.

Negare questo stato significa condannarsi a fingere fermezza anche quando tutto grida il contrario.

Una parola scomoda in una cultura che pretende decisione

Viviamo in un’epoca che premia chi sa cosa vuole, chi non ha dubbi, chi si muove con passo sicuro. In questo contesto, la parola vacillamento appare fuori luogo, quasi vergognosa. Eppure è proprio nel momento in cui si vacilla che si vedono meglio le strutture portanti: quelle che cedono e quelle che reggono. Il vacillamento non è mancanza, ma diagnosi. È la prova che qualcosa dentro di noi sta lavorando. È il segnale che la tenuta automatica non basta più.

Restituirle valore significa ridare legittimità a tutti quei passaggi interiori che non hanno forma stabile, ma che contengono verità in movimento.

Il corpo che avverte prima della mente

Il vacillamento si manifesta prima di tutto nel corpo. Una postura incerta, un passo interrotto, una voce che si incrina. La parola vacillamento ci ricorda che il disorientamento è fisico, viscerale, non solo mentale. È un’informazione che viene da dentro, che spesso non abbiamo ancora tradotto in linguaggio. E forse per questo ci imbarazza: perché ci espone. Mostra che non controlliamo tutto. Ma è proprio in quel segnale corporeo che può nascere un nuovo ascolto. Una nuova posizione. Una nuova possibilità.

Accogliere il vacillamento non è arrendersi al caos, ma dare tempo alla verità di emergere senza forzature.

Non è indecisione, è soglia

Confondere il vacillamento con la confusione è un errore comune. In realtà, vacillare può essere una forma di lucidità. Significa sapere che si è sul punto di cambiare, ma non ancora pronti a scegliere. La parola vacillamento è il nome di una soglia delicata: tra ciò che eravamo e ciò che potremmo essere. È un momento in cui le vecchie certezze si allentano, ma quelle nuove non sono ancora nate. E come tutte le soglie, è faticoso restarci. Ma necessario.

Solo chi attraversa il vacillamento può davvero scegliere, e non semplicemente reagire.

Una parola da restituire al linguaggio del coraggio

Riabilitare la parola vacillamento significa anche restituirle una dignità che la nostra cultura le ha tolto. È facile esibire forza, molto più difficile riconoscere quando si è fragili senza cedere. Vacillare richiede una forza silenziosa, una resistenza interna che non cerca applausi. È l’opposto del collasso, ed è spesso il suo antidoto. Perché chi riesce a stare nel proprio vacillare, senza negarlo e senza evitarlo, può trovare un modo nuovo di stare al mondo.

Il vacillamento non è fine. È inizio.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #192
🔤 Chi sa vacillare senza crollare ha già iniziato a cambiare. Per questo la parola vacillamento merita di tornare: per nominare quel passaggio senza nome.



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