Riabilitiamo la parola tabe

Riabilitiamo la parola tabe


Nel lessico di oggi, la parola tabe è quasi scomparsa, relegata ai margini dei vecchi dizionari o delle storie di malattie antiche. Eppure, pronunciare la parola tabe significa riportare a galla un mondo di fragilità, di logorio lento, di vite segnate dall’erosione più che dallo scontro. Non è soltanto la malattia che consuma, ma una metafora universale del tempo che scava, della memoria che si assottiglia, della resistenza silenziosa che si oppone al disfacimento. Restituire dignità a questa parola significa riaprire un dialogo con la parte vulnerabile dell’esistenza, con il senso stesso della durata e della perdita.

Tabe come destino e come esperienza umana

Nel passato, la parola tabe era temuta e familiare. Indossava i volti della consunzione, della malattia che non si annuncia con il clamore ma con la lenta, costante erosione delle forze. La tabe era una presenza silenziosa nelle case e nei corpi, una forma di logorio che costringeva a fare i conti con il limite. Ma, in ogni epoca, il destino della tabe non è stato solo quello di una condanna: era anche occasione di cura, di attenzione raddoppiata, di memoria degli affetti che si stringono attorno a chi si consuma. Dare voce a questa parola oggi significa recuperare la forza della lentezza e della resilienza, il valore di ciò che non si esaurisce in un lampo ma si trasforma, giorno dopo giorno, sotto la pressione invisibile del tempo.

La parola tabe nella memoria collettiva

La parola tabe affiora nella letteratura, nei diari di guerra, nei racconti di famiglia, come un filo sottile che lega l’esperienza della malattia alla storia personale e collettiva. Nella tabe si condensano il senso di fragilità, la paura della perdita, ma anche la capacità di resistere all’erosione, di tenere viva la memoria nonostante il logorio. In molte culture, la consunzione non è solo perdita, ma passaggio: una trasformazione che svela nuove forme di presenza, nuovi legami, nuove possibilità di ricordo. La tabe diventa così una maestra silenziosa, che invita a osservare il modo in cui il tempo scava non solo i corpi, ma anche le relazioni, le case, le abitudini.

Tabe come soglia tra resistenza e abbandono

Riabilitare la parola tabe significa anche riconoscere che la fragilità non è solo una condizione da evitare, ma uno stato da attraversare con consapevolezza. La tabe costringe a rallentare, a rivedere le priorità, a ritrovare valore nella cura e nell’ascolto. Nel logorio c’è una forma di saggezza: imparare a stare nel tempo senza fretta, accettare che l’erosione può essere anche una forma di rinascita, un modo per tornare essenziali. La tabe, in fondo, ci pone davanti al bivio tra resistenza e abbandono, tra la tentazione di arrendersi e la possibilità di trasformare la perdita in memoria viva.

Restituire senso alla parola tabe oggi

Oggi la parola tabe rischia di essere dimenticata, cancellata dalla velocità e dalla paura della debolezza. Ma proprio per questo va difesa: perché ci ricorda che la vita non è fatta solo di esplosioni e conquiste, ma anche di lunghi periodi di logorio e di pazienza. Riabilitare questa parola significa restituire dignità alla parte nascosta della resistenza, a ciò che non si vede ma sostiene tutto il resto. Tabe diventa allora simbolo di una memoria profonda, della necessità di riconoscere i propri limiti senza vergogna, della forza che nasce dal saper restare, giorno dopo giorno, anche quando tutto sembra volersi consumare.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #258
🔤 Restituire la parola tabe è accogliere la saggezza della fragilità, della resistenza nascosta e della memoria che sopravvive all’erosione del tempo.



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