Riabilitiamo la parola tabarro

Riabilitiamo la parola tabarro


La parola tabarro è rimasta appesa a un filo di memoria collettiva. È il nome di un indumento che sembra appartenere a un altro tempo, a un altro modo di abitare il corpo e il paesaggio. Oggi la parola tabarro sopravvive in qualche opera lirica, in un verso di poesia o in un racconto che cerca un tono antico. Ma fuori dal testo, non circola più. Eppure, dentro questa parola si custodisce qualcosa che merita di essere riascoltato: l’idea di un riparo, di una presenza silenziosa che accompagna, di una protezione che non ostenta, ma avvolge. Va riabilitata non come oggetto, ma come gesto.

Un mantello con radici

Il tabarro era un indumento semplice, pesante, avvolgente. Ampio, spesso scuro, privo di decori. Serviva a coprire, a nascondere, a proteggere dal freddo e dagli sguardi. La parola tabarro nasce in contesti rurali, militari, artigiani. Non era un capo di moda, ma un compagno di strada. Accompagnava pastori, viandanti, uomini silenziosi e spesso soli. Era pratico, ma anche simbolico. Portava con sé il senso del confine tra il dentro e il fuori. Tra ciò che si offre al mondo e ciò che si trattiene.

Nel linguaggio, il tabarro può tornare a dire tutto questo: la possibilità di avvolgere senza soffocare, di esserci senza esibizione.

Il peso delle cose che coprono

A differenza dei vestiti moderni, leggeri e visibili, il tabarro era pesante. Aveva un suo peso, una sua gravità. Lo si indossava non per farsi notare, ma per resistere. La parola tabarro ci parla di un tempo in cui coprirsi era anche un modo per proteggere ciò che non doveva essere esposto. Un tempo in cui mostrarsi non era obbligatorio. Un’epoca in cui l’essenziale era portato con sé, vicino al corpo, al riparo.

Oggi che tutto tende a essere visibile, trasparente, accessibile, questa parola può diventare un contrappunto. Può aiutarci a ricordare il valore delle soglie, dei veli, dei margini.

Il silenzio come presenza

Il tabarro non dichiarava, non firmava. Era un mantello che si apriva poco e si chiudeva bene. La parola tabarro è anche questo: un modo di stare al mondo senza occupare troppo spazio. Una figura che passa sotto i radar, che non pretende attenzione ma lascia traccia. Chi portava il tabarro era spesso uno che non aveva bisogno di spiegare, ma che sapeva restare. L’indumento diventava parte del carattere. Era un prolungamento della postura.

Nel nostro vocabolario accelerato, questa parola può restituire un tempo lento, una presenza discreta, una densità che non cerca visibilità.

Un oggetto che diventava confine

Indossare il tabarro era anche delimitarsi. Creare un confine morbido tra sé e il mondo. Non una barriera, ma una zona di transizione. La parola tabarro può tornare utile oggi per nominare quel bisogno di spazio che non è isolamento, ma equilibrio. Quel bisogno di non essere sempre disponibili, sempre accessibili, sempre scoperti.

Come parola, può descrivere non solo un capo d’abbigliamento, ma una soglia simbolica: quella tra l’esposizione e la protezione, tra l’identità mostrata e quella custodita.

Restituire valore al non visibile

Riabilitare la parola tabarro non è un gesto nostalgico. È un modo per riportare nel linguaggio una forma dimenticata di presenza. Quella che non grida, non si vende, non si mostra. Una parola che ricorda che c’è ancora qualcosa da coprire, da contenere, da proteggere. Che non tutto va reso disponibile. Che esistono protezioni silenziose, utili, profonde. E che forse abbiamo ancora bisogno di parole come questa per ricordarcelo.

Il tabarro, in fondo, non era un abito. Era una scelta di come stare al mondo.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #190
🔤 Il tabarro non vestiva: custodiva. Era il segno di chi cammina nel mondo senza il bisogno di mostrarsi, ma con il bisogno di attraversarlo intero.



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