La parola tabarin è scomparsa dai nostri discorsi come i luoghi a cui apparteneva. Evoca un mondo notturno, leggero, effimero, fatto di piume, fumo e canzoni stonate. Un luogo che oggi ci fa sorridere, che rischiamo di ridurre a pittoresco. Eppure la parola tabarin contiene molto più di una scena da vecchio varietà: custodisce un’idea di eccesso controllato, di libertà irriverente, di vitalismo fragile. Riabilitiamo la parola tabarin per riconsegnarle la sua forza nascosta: non come nostalgia, ma come memoria di uno spazio in cui era possibile disobbedire ballando. La parola tabarin non ha bisogno di tornare di moda: ha bisogno di tornare a vibrare.
Il tabarin come soglia tra ordine e disordine
La parola tabarin nomina un luogo che stava al margine: non teatro, non casa, non strada. Era spazio di passaggio, di travestimento, di risate storte. Era un rifugio dove l’identità poteva sfilacciarsi e ricomporsi tra una battuta e un bicchiere. Riabilitiamo la parola tabarin perché oggi ci manca proprio questo: luoghi dove non essere coerenti. Dove potersi muovere senza dover spiegare tutto. Dove il disordine non è una colpa, ma una danza.
Nel tabarin si rideva per resistere. Si mostrava troppo per sottrarsi. Si esagerava per non implodere. Era teatro spontaneo, cabaret sghembo, libertà provvisoria. E forse anche per questo è stato cancellato, ridicolizzato, ridotto a carnevale da cartolina. Ma sotto quella polvere c’è ancora fuoco. C’è l’eco di una voce che non chiedeva il permesso, ma si prendeva la scena con leggerezza.
Riabilitiamo la parola tabarin come spazio della licenza
La parola tabarin rappresentava una sospensione dalle regole. Una parentesi notturna in cui il linguaggio si spezzava, il corpo usciva dai codici, la musica prendeva il posto delle istruzioni. Era un luogo dove si poteva essere altro. O nessuno. Dove l’eccesso non era giudicato, ma accolto. Dove la leggerezza era politica.
Riabilitiamo la parola tabarin perché oggi tutto è schedato, tracciato, previsto. Eppure continua a esistere, nel fondo di certe risate, nei frammenti di libertà che non sappiamo nominare, un desiderio di zona franca. La parola tabarin è quella zona. Un nome che possiamo rimettere in circolo non per ricostruire il passato, ma per riattivare la possibilità del fuori programma.
E forse dovremmo chiederci: dove sono oggi i nostri tabarin? Dove possiamo permetterci di essere inadeguati, teatrali, sbagliati, senza che questo venga ridicolizzato o neutralizzato?
Tabarin come esercizio di leggerezza radicale
In un mondo che ci vuole lucidi, performanti, allineati, il tabarin era l’opposto. Non per decadenza, ma per visione. Era un allenamento al caos, al ridicolo, all’eccesso come lingua alternativa. La parola tabarin ci offre l’occasione di pensare alla leggerezza come resistenza. Alla frivolezza come forma di sopravvivenza.
Non tutto va elevato. Alcune cose vanno lasciate cadere, girare, ondeggiare tra la musica e l’errore. Il tabarin non chiedeva di capire: chiedeva di esserci. Di respirare. Di smettere, anche solo per un’ora, di essere utili. Riabilitiamo la parola tabarin perché il riso ha memoria. E il corpo che si muove senza scopo è un corpo che si riprende.
E poi, chi ha detto che il superfluo non sia anche sacro? Chi ha deciso che ciò che diverte non possa trasformare?
Raccontare il tabarin è rompere il ritmo
La parola tabarin interrompe la narrazione lineare del progresso. Parla di deviazioni, di voci fuori campo, di costumi riciclati e di esistenze ai bordi. È una parola che scivola, che non sta al posto, che non si fa ordinare. Riabilitiamo la parola tabarin proprio per questo: perché non appartiene a un ordine, ma a una crepa.
E in quella crepa, forse, possiamo ancora infilarci. Con tutto il nostro bisogno di confusione, di eccesso, di verità che non devono durare. La parola tabarin è una maschera che ride, ma dietro la risata c’è un’urgenza che non passa mai.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #151
📖 Il tabarin non è nostalgia: è una fenditura. Dove si ride per non implodere, e si balla per non scomparire.