La parola sabba è rimasta impigliata nelle maglie dell’oscurità. Oggi la si incontra di rado, spesso associata a immagini distorte, grottesche, stereotipate. Eppure la parola sabba custodisce una memoria antica, un’eco di ribellione rituale, di assemblea segreta, di corpi che si liberano dalle regole. È una parola deformata dal potere e poi dimenticata, ma dentro il suo suono ci sono la notte, la danza, il rovesciamento. Riabilitarla non significa evocare misteri né estetizzare l’occulto, ma riportare alla luce ciò che la storia ha etichettato come pericolo solo perché non era controllo.
Una parola che ha fatto paura
Il sabba non è mai stato solo un raduno notturno. È stato il nome dato a tutto ciò che si riuniva fuori dai confini: donne, eretici, guaritori, corpi indisciplinati, gesti che rompevano l’ordine. La parola sabba ha avuto funzione di etichetta repressiva. Bastava pronunciarla per evocare il caos, giustificare la condanna, alimentare il sospetto. È una parola usata per mettere al bando, per creare mostri narrativi, per spegnere qualsiasi forma di espressione che non fosse allineata.
Ma forse, oggi, possiamo riappropriarci di questa parola senza paura, e chiederci cosa significava davvero.
Il margine come spazio di libertà
Dietro l’immagine stereotipata del sabba – danze sfrenate, simboli oscuri, riti incomprensibili – c’era una forma di libertà. Libertà di movimento, di parola, di ruolo. La parola sabba ci ricorda che esiste uno spazio dove i codici si allentano e i corpi si incontrano in forme non previste. Non era solo un rito, ma una possibilità: quella di dire “no” a ciò che viene imposto, e “sì” a ciò che nasce spontaneamente quando si è fuori dal centro.
Il sabba, nella sua essenza, non apparteneva al male, ma al rovesciamento. Era una sospensione, una zona franca. E questo basta a giustificare il suo recupero.
Corpo, gesto, ritmo
In tempi in cui tutto è parola e visibilità, il sabba ricorda il potere del corpo che agisce senza essere guardato. Era danza, contatto, disordine condiviso. La parola sabba custodisce una grammatica del gesto non controllato. Era linguaggio fisico, senso collettivo che non passava per la razionalità. Per questo è stato temuto. E per questo è ancora necessario.
Restituire senso a questa parola significa riconoscere che c’è una parte di noi che non si esprime con il linguaggio ordinario. Che ha bisogno di altri spazi, di altri ritmi, di altre presenze.
Tra rituale e insubordinazione
La parola sabba ha qualcosa di rituale, ma non è mai stato un rito ufficiale. Non aveva liturgie codificate, ma esplosioni episodiche. Era più vicino all’insubordinazione che alla religione. In questo senso, si avvicina alle feste pagane, ai carnevali, ai momenti in cui il mondo si ribalta per qualche ora. E come ogni ribaltamento, è stato punito.
Ma ogni cultura ha bisogno di un tempo in cui le regole saltano. In cui chi comanda si mette da parte. In cui la notte è più saggia del giorno. Il sabba era, forse, una forma primitiva di questa necessità.
Una parola da disinnescare e restituire
Riabilitare la parola sabba significa toglierle la patina sensazionalistica e restituirle la sua complessità. Non è una parola per evocare spettri, ma per ricordare che esistono incontri fuori scena, non regolati, non sorvegliati. È una parola per parlare di comunità alternative, di riti informali, di raduni che non vogliono essere confermati dal potere.
In un mondo che teme tutto ciò che non è controllato, il sabba resta un simbolo di vitalità. Di rischio, certo. Ma anche di creazione.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #189
🔤 Il sabba era ciò che accadeva quando il mondo ufficiale si distraeva. Restituire questa parola è ricordare che non tutto il vero accade alla luce.