La parola rabberciare non piace. Suona male, inciampa, è storta. Evoca qualcosa di approssimativo, tirato via, poco elegante. Eppure la parola rabberciare ha dentro una forza che abbiamo dimenticato: quella del rammendo, della soluzione imperfetta ma necessaria, dell’aggiustamento che non pretende di essere definitivo ma che intanto tiene insieme. Riabilitiamo la parola rabberciare per riconoscere il valore delle riparazioni minime, dei gesti provvisori, del prendersi cura anche quando non si hanno i mezzi per farlo “come si deve”. Perché la parola rabberciare non chiede perfezione. Chiede solo di non lasciare andare in pezzi.
Rabberciare è agire con poco
Viviamo in un tempo che celebra il nuovo, il rifatto da capo, il perfettamente funzionante. Ma ci sono momenti in cui non si può ricominciare. Allora si rabbercia. Si tiene insieme quello che si ha. Si cuce male ma si cuce. Si appoggia un pezzo su un altro, si tappa, si ferma l’emorragia. La parola rabberciare è il contrario della resa. È resistenza minima. È volontà che non ha risorse ma insiste.
Rabberciare una relazione, una stanza, un pensiero. Rabberciare un giorno che stava andando a rotoli. Non è un gesto nobile. È un gesto reale. E in questo tempo di immagini levigate, riabilitiamo la parola rabberciare perché ci ricorda che anche le soluzioni fragili hanno dignità.
Rabberciare è anche dire “non ho le condizioni ideali, ma ci provo lo stesso”. È un modo per non cedere al disincanto. È il gesto di chi salva quello che può, con quello che ha, sapendo che non sarà perfetto, ma sarà presente.
Riabilitiamo la parola rabberciare come sapere del ripiego
La parola rabberciare porta con sé la memoria delle mani. Di chi sapeva aggiustare con ciò che trovava. Di chi metteva una toppa senza preoccuparsi che fosse bella, ma solo che tenesse. È una parola che sa di stoffa cucita, di oggetti salvati, di vite che non si buttano via.
C’è un sapere profondo dentro il rabberciare. Un sapere che non passa dai manuali, ma dall’intuizione, dall’improvvisazione, dalla cura. Rabberciare è anche riconoscere che il perfetto non è sempre possibile. E che il possibile, se fatto con attenzione, può bastare. Riabilitiamo la parola rabberciare perché ci insegna a valorizzare ciò che non appare, ma tiene.
E tenere non è poco. È un gesto tenace, testardo, a volte invisibile. Ma è ciò che impedisce al mondo di sgretolarsi.
Rabberciare è una forma di amore silenzioso
La parola rabberciare non è romantica, ma è affettuosa. È un gesto fatto in disparte. Senza clamore. Senza aspettarsi grazie. È la tazza incollata che continua a servire il caffè. È il vestito cucito male che tiene ancora un inverno. È la frase sistemata male, ma detta in tempo. È un modo per dire: “non ho potuto fare di più, ma non ti ho lasciato andare”.
Riabilitiamo la parola rabberciare per darle la dignità che merita. Perché c’è forza in chi resta anche senza eleganza. C’è bellezza in ciò che tiene, anche se traballa. C’è amore in ogni gesto che cerca di salvare qualcosa — anche solo per oggi, anche solo un po’.
Non tutto si rifà da capo
Viviamo in una cultura dello scarto. Se qualcosa si rompe, si butta. Ma ci sono vite che non si possono ricominciare. Legami che non si possono riscrivere. Corpi che non si rifanno. Allora si rabbercia. E non è un fallimento. È una scelta di responsabilità. È dire: con questo poco che ho, provo a rimettere insieme.
La parola rabberciare sa di margine, di povertà, di invenzione. Ma anche di fedeltà. Di insistenza. Di rispetto per ciò che è stato. Rabberciare è ciò che resta quando non resta nulla. È ciò che tiene quando tutto scricchiola. Riabilitiamo la parola rabberciare per non dimenticare il valore delle soluzioni fragili. E per riconoscere la forza che vive dentro l’imperfezione.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #149
📖 Rabberciare non è un errore. È un modo umile e necessario per continuare a stare al mondo anche quando qualcosa si rompe.