La parola rabarbaro sembra uscita da un altro tempo, uno di quelli in cui si parlava sottovoce e si conoscevano le erbe per nome. Oggi la parola rabarbaro sopravvive quasi esclusivamente come sapore, spesso confinata a caramelle amare o liquori digestivi. Ma dietro il suo suono ruvido e quasi ironico, si nasconde un mondo dimenticato. È una parola che sa di terra, di cura lenta, di sapienza popolare. E proprio per questo va restituita. Perché non parla solo di un rizoma amarognolo, ma di un’idea precisa di rimedio: quello che non ti coccola, ma ti fa bene davvero.
Un gusto che non si finge
Il rabarbaro ha un gusto che non inganna. È amaro, deciso, e chiede attenzione. Non è fatto per piacere a tutti, ma per rimettere in equilibrio qualcosa che si è spostato. Non è gradevole, è utile. Non è moda, è rimedio. La parola rabarbaro evoca un tempo in cui il sapore e la funzione erano alleati, e non opposti. In cui il cibo non era solo intrattenimento, ma anche messaggio.
Ci ricorda che non tutto ciò che aiuta è dolce, e non tutto ciò che è amaro va evitato. Il rabarbaro non è carezza: è intervento.
Pianta di confine
Cresce in zone intermedie, tra l’orto e il campo. Ha un aspetto incerto: gambi rossi, foglie larghe, nessuna grazia ornamentale. Il rabarbaro non chiede di essere guardato: chiede di essere usato. È una pianta che conosce il limite, che lavora sotto, che si fa notare solo nel momento in cui serve. La parola rabarbaro incarna questa logica del margine: non centralità, ma disponibilità. Non apparenza, ma azione.
È il contrario della seduzione. Non attira: resta. Non ti cerca: ti aspetta.
Sapienza nascosta
Nella medicina tradizionale, il rabarbaro era associato all’intestino, alla digestione, alla purificazione. Era una radice che riportava ordine nel corpo. Un gesto severo ma necessario. La parola rabarbaro appartiene a quella parte del sapere popolare che non fa rumore, ma che agisce in profondità. Il suo nome era familiare in casa, nei racconti dei nonni, in farmacia.
Oggi l’abbiamo ridotto a sapore retrò, a liquore da fine pasto. Ma può ancora parlare. Può ancora insegnarci che esistono verità che non sono immediate, né gradevoli, ma che servono.
L’amaro che sistema
Riabilitare la parola rabarbaro significa anche rimettere al centro il valore dell’amaro. Di tutto ciò che corregge, che pulisce, che raddrizza. In un mondo che spinge verso l’edulcorazione, verso la narrazione accomodante, questa parola ci riporta alla sobrietà del necessario. Non tutto deve essere dolce per essere giusto. Non tutto ciò che ci piace ci fa bene.
Il rabarbaro è un invito a tornare a sentire il sapore pieno delle cose. A non cercare sempre la carezza. A sopportare il passaggio attraverso qualcosa di ruvido, se questo serve a rimettere ordine.
Una parola che non inganna
La parola rabarbaro non è elegante, non è moderna, non è malleabile. Ma è autentica. È una di quelle parole che non si possono fraintendere, che portano con sé un’identità precisa. Restituirla significa restituire spazio a tutto ciò che non seduce, ma funziona. A tutto ciò che non si impone, ma resta. È una parola che può aiutarci a guardare di nuovo ai nostri linguaggi, ai nostri gusti, alle nostre scelte: quanto sono costruiti per piacere, e quanto per servire davvero?
Riscoprire il rabarbaro è riscoprire un certo tipo di verità. Quella che non si impone, ma lavora in silenzio. Quella che non si addolcisce per essere accettata.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #188
🔤 Il rabarbaro non cerca approvazione. E nemmeno la parola che lo nomina. Restituirla significa tornare a fidarsi di ciò che aiuta senza dover piacere.