La parola quadrare vive ancora nel linguaggio quotidiano, ma spesso in forma automatica, scolorita. La si usa per far tornare i conti, per far combaciare versioni, per dire che qualcosa ha un senso. Eppure, la parola quadrare racchiude un sistema intero di aspettative, geometrie mentali, tensioni invisibili tra logica e realtà. Non è solo un verbo contabile: è un imperativo simbolico. Ciò che non “quadra” ci inquieta, ci rallenta, ci obbliga a rivedere. E ciò che “quadra” ci tranquillizza, ci conferma, ci permette di andare avanti. Ma forse è proprio qui che la parola andrebbe interrogata. Non per negarne l’utilità, ma per restituirle complessità.
L’ossessione della simmetria
Far quadrare significa far tornare. Non solo nei numeri, ma nei racconti, nelle decisioni, nelle identità. È un verbo che richiama l’idea di giustezza, di simmetria, di ordine. In una cultura che teme il disordine, la parola quadrare si è caricata di un peso silenzioso. Far quadrare le cose diventa una forma di sicurezza. Ma spesso è una sicurezza fittizia. Perché la realtà, a ben vedere, quadra raramente. E il bisogno di farla quadrare può diventare un atto di forzatura, un gesto di manipolazione o di rimozione.
Ciò che non quadra viene sospettato, deriso, eliminato. Eppure, molto di ciò che è vero vive proprio fuori da quel perimetro.
Quando il linguaggio è una griglia
Dire che qualcosa “non quadra” è un modo per dire che non si lascia ingabbiare in una struttura predefinita. La parola quadrare assume così una funzione di controllo semantico: serve a delimitare, a fissare, a contenere. Tutto ciò che sfugge alla quadratura è percepito come incerto, ambiguo, inaffidabile. Ma è proprio nel non-quadrare che spesso si nasconde l’anomalia feconda, il dettaglio rivelatore, la falla necessaria.
Rieducarsi a non cercare sempre la quadratura perfetta può diventare un atto liberatorio. Non tutto deve tornare per valere. Non tutto ciò che ha senso deve avere simmetria.
I conti, le versioni, le vite
Usiamo la parola quadrare con disinvoltura: far quadrare i conti, far quadrare gli orari, far quadrare le versioni. Dietro ogni uso si nasconde un gesto di semplificazione. Quadrare significa togliere margine d’errore. Rendere lineare. Eppure, la vita raramente si dispone in schemi regolari. Ci sono dolori che non tornano, scelte che non si spiegano, percorsi che non si giustificano. E sono proprio quelli che ci trasformano.
Riabilitare la parola non significa promuovere il caos. Ma accettare che non tutto può essere ricondotto a una forma chiusa. E che l’ansia di chiudere il cerchio, di far combaciare tutto, può impedirci di vedere ciò che eccede.
Una parola tra controllo e illusione
C’è del potere nella parola quadrare. Chi sa far quadrare è apprezzato, considerato affidabile, razionale, concreto. Ma spesso questa abilità nasconde una tendenza a semplificare ciò che è più grande. A ridurre la complessità in nome della coerenza apparente. Non è un male in sé. Ma è un rischio, soprattutto quando si impone agli altri. Quando si pretende che anche le vite altrui “quadrino” con la nostra logica. Con le nostre aspettative. Con le nostre griglie.
L’intelligenza, forse, sta nel sapere quando cercare la quadratura. E quando lasciare che qualcosa resti irregolare, sfalsato, incompleto.
Restituire libertà alla forma
Riabilitare la parola quadrare non significa negarne l’uso, ma sottrarla alla sua rigidità. È un verbo utile, necessario, anche elegante. Ma non può essere l’unico modo per giudicare il reale. Serve anche la possibilità di accettare l’asimmetria, il dettaglio che stona, l’elemento che resiste al conteggio.
Solo così il verbo torna ad essere strumento, non gabbia. Solo così possiamo usarlo senza diventarne schiavi. Perché quadrare, in fondo, non è sempre la soluzione. A volte, è il problema.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #187
🔤 Non tutto deve quadrare. Alcune verità restano irregolari, e non per errore: per necessità. Perché fuori dalla forma, a volte, c’è l’unico spazio libero.