Riabilitiamo la parola pacare

Riabilitiamo la parola pacare


La parola pacare è quasi scomparsa dal nostro vocabolario. È rimasta incastonata nei dizionari, polverosa, piegata sotto il peso di forme più moderne, più pratiche, più veloci. Ma la parola pacare ha un respiro diverso: lento, profondo, antico. È un verbo dimenticato che nomina qualcosa di urgente e umanissimo — il gesto di calmare, di spegnere l’agitazione, di riportare quiete dove c’è disordine. Riabilitiamo la parola pacare per restituirle il suo spazio nella lingua, per farle dire di nuovo ciò che oggi non si sa più dire: che la pace non è assenza di conflitto, ma presenza piena.

Pacare è più di calmare

Oggi si preferisce dire “tranquillizzare”, “sedare”, “attenuare”. Parole fredde, operative, spesso paternalistiche. Ma la parola pacare è altro: ha dentro il tocco, la misura, il respiro. Non è solo fermare l’agitazione, ma riconoscerla. Non è sopprimere, è accompagnare. Non è dominio, ma ascolto.

Riabilitiamo la parola pacare perché ci manca un verbo che non pretenda di sistemare, ma che sappia rimanere accanto. Che sappia abbassare il tono senza rinunciare alla presenza. Pacare è scegliere la delicatezza quando sarebbe più facile alzare la voce. È una forza che non si impone, ma si offre.

Riabilitiamo la parola pacare come gesto etico

La parola pacare ha una dimensione morale. In un tempo che premia il confronto acceso, il colpo immediato, la reazione istantanea, pacare è un atto di resistenza lenta. È una forma minima di giustizia quotidiana. Non gridare dove tutti gridano. Non rilanciare il colpo. Non restituire l’offesa.

C’è qualcosa di radicale in chi decide di pacare. È un gesto che non fa rumore, ma che modifica l’atmosfera. Che non pretende di avere ragione, ma crea lo spazio perché qualcosa possa trasformarsi. Riabilitiamo la parola pacare perché abbiamo bisogno di parole che non si mettano al centro, ma che facciano spazio. Parole che non chiudano, ma che aprano possibilità.

Pacare è anche un movimento interiore

La parola pacare non è solo azione verso l’altro. È anche un processo intimo. Pacare se stessi. Lasciare che il respiro si allunghi. Fare silenzio tra due pensieri. Fermare il gesto prima che diventi reazione. È un esercizio di presenza. Di ascolto profondo. Non per fuggire dal mondo, ma per poterci rientrare senza perdere l’orientamento.

Riabilitiamo la parola pacare perché oggi tutto ci spinge fuori da noi stessi. A esprimerci, a rispondere, a dichiarare. Pacare, invece, invita a rientrare. A fare vuoto. A non aggiungere rumore dove già tutto trabocca. È il gesto di chi sceglie di non accelerare. Di chi cerca un ritmo umano, non automatico.

La parola pacare è cura che non si nota

Non è una parola spettacolare. Non ha forza visiva. Ma ha radici. Ha una dolcezza ferma. La parola pacare accade quando qualcuno sceglie di non rompere, ma di trattenere. Quando nel mezzo della tensione, si resta. Quando si decide di cucire anziché tagliare.

In una società dove la comunicazione è spesso affondo, urgenza, disconnessione, pacare è un verbo prezioso. Non fa notizia. Ma tiene insieme. Permette alle cose di continuare. Riabilitiamo la parola pacare perché ci serve una lingua che sappia anche rallentare. Una lingua che abbia spazio per il gesto che non divide, ma riconnette.

Pacare è scelta. E ogni scelta che custodisce è già un gesto di resistenza.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #147
📖 Rallentare non è cedere. È ricordare che anche la calma può essere un atto radicale.



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