Riabilitiamo la parola obbedienza

Riabilitiamo la parola obbedienza


La parola obbedienza non gode di buona fama. Viene spesso associata alla sottomissione, all’assenza di pensiero critico, alla rinuncia di sé. Ma la parola obbedienza non nasce come strumento di controllo: nasce come domanda aperta, come relazione tra ascolto e azione. Forse è il modo in cui l’abbiamo trattata, insegnata, imposta, a renderla così scomoda oggi. Eppure continua a esistere, a comparire nei gesti più semplici come nelle scelte più complesse. Forse non va accantonata, ma rivista. Forse va restituita alla sua ambiguità originaria.

Una parola che divide

È difficile parlarne senza che si accendano reazioni opposte. C’è chi la difende come fondamento della convivenza e chi la rifiuta come simbolo di asservimento. La parola obbedienza sembra richiedere una scelta netta, ma forse è proprio in questo suo carattere divisivo che risiede la sua forza. Perché non esiste obbedienza senza tensione. Non esiste senza un rapporto. E ogni rapporto implica gerarchia, fiducia, rinuncia, riconoscimento.

In fondo, cosa significa obbedire? Adeguarsi a un ordine? Rispondere a un’autorità? Oppure è qualcosa di più sottile, qualcosa che ha a che fare con il modo in cui decidiamo a chi affidare la guida, almeno per un tratto?

Obbedienza e ascolto

L’etimologia ci porta al verbo latino ob-audire: ascoltare con attenzione. Obbedire, in origine, era un atto legato all’udito. Prima ancora dell’azione, c’era un tempo di ascolto. La parola obbedienza conteneva, un tempo, una dinamica più complessa di quella che oggi le attribuiamo. Obbedire significava mettersi in relazione con un ordine esterno, ma anche con la propria capacità di comprenderlo, di accoglierlo, di tradurlo in gesto.

Forse l’obbedienza non è solo ciò che si fa, ma il modo in cui si sceglie di farlo. E in questo senso, è molto più vicina alla responsabilità che alla passività.

Quando obbedire è necessario

Ci sono momenti in cui disobbedire è giusto, persino necessario. Ma ce ne sono altri in cui la capacità di obbedire a una norma, a un ritmo, a una direzione comune, permette di costruire qualcosa che da soli non potremmo raggiungere. La parola obbedienza non va pensata solo in termini individuali, ma anche relazionali. È nel modo in cui partecipiamo alle regole che si misura anche la qualità di un patto sociale.

Questo non significa che tutte le regole siano giuste, né che ogni comando vada seguito. Ma che l’obbedienza, quando è consapevole, può essere un atto adulto. Un modo per dire: in questo momento non seguo solo me stesso, ma una linea più ampia, una struttura condivisa, un ordine che mi include.

Il confine tra scelta e imposizione

Certo, è difficile distinguere tra obbedienza consapevole e sottomissione automatica. Il confine è sottile e instabile. La parola obbedienza porta con sé il rischio della delega totale, della sospensione del pensiero. È successo in passato, accade ancora. Ed è per questo che va trattata con attenzione. Non per essere eliminata, ma per essere guardata in faccia. Perché solo se ne riconosciamo le trappole possiamo usarla in modo diverso.

Obbedire può voler dire piegarsi. Ma anche, in alcuni casi, restare. Restare dentro un legame, dentro un ruolo, dentro un limite. E restarci non perché si è incapaci di uscirne, ma perché si è scelto di farlo.

Una parola da salvare, non da esaltare

Riabilitare la parola obbedienza non significa celebrarla. Significa salvarla dalla condanna automatica, e riportarla dentro il discorso sul potere, sull’autonomia, sul rispetto. È una parola che mette in discussione tanto chi obbedisce quanto chi comanda. Una parola che può diventare strumento di dominio o di accordo. E come tutte le parole ambivalenti, è fragile. Ma anche per questo preziosa.

In un tempo che tende a confondere libertà con disinteresse, e autorità con abuso, tornare a interrogarsi su cosa significhi obbedire può essere un atto sorprendentemente liberatorio.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #185
🔤 Obbedire non è sparire. È stare in una relazione con qualcosa che ci oltrepassa, decidendo ogni volta se vale la pena starci dentro.



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Scrive da un punto imprecisato tra il mondo che c’è e quello che potrebbe esistere.
Non cerca followers, cerca fenditure.
Non insegna nulla, ma disobbedisce per mestiere.
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Vive in silenzio, ma scrive forte.
È uno che cammina fuori traccia.
E non per sbaglio.