Riabilitiamo la parola nacchera

Riabilitiamo la parola nacchera


La parola nacchera ha dentro il suono della terra, del legno, del gesto. Oggi la pronunciamo poco, spesso con ironia, come se appartenesse a un mondo kitsch, folclorico, fuori moda. Eppure la parola nacchera ha una storia antica, corporea, sonora. Nasce dal bisogno di dire senza parole, di segnare un ritmo con le dita, di battere il tempo con il corpo. Riabilitiamo la parola nacchera per restituirle la sua densità: non come accessorio, ma come battito, come strumento vivo che accompagna, scandisce, ricorda.

La parola nacchera è ritmo che prende forma

Non è solo uno strumento musicale. È un’estensione del corpo. Un gesto che si ripete e che afferma una presenza. La parola nacchera appartiene a chi non ha voce ma ha mani. A chi danza per raccontare. A chi interrompe il silenzio con un colpo secco. È gesto minimo e netto che non chiede di essere compreso, ma sentito.

Chi muove una nacchera non suona: chiama. Non decora: incide. Il suono della nacchera non accarezza. È breve, preciso, necessario. Riabilitiamo la parola nacchera per sottrarla all’estetica pittoresca e ridarle il suo significato profondo: un colpo che fa spazio, una presenza che non ha bisogno di spiegazioni.

Riabilitiamo la parola nacchera come memoria del corpo

La parola nacchera è ciò che resta di un sapere arcaico, non scritto, che passa da gesto a gesto, da pelle a pelle. È corpo che parla senza mediazioni. Nella nacchera si intrecciano gesto, suono, intenzione. Il corpo non è solo esecutore, è voce. Il legno che batte contro legno non produce solo ritmo, ma attenzione. Presenza. Appello.

Suonare una nacchera richiede consapevolezza. Non è rumore, è misura. È vuoto che viene attraversato. È pausa che diventa battito. Riabilitiamo la parola nacchera per ricordare che anche le mani pensano, e che c’è una sapienza che passa dal polso più che dal discorso. Una lingua fatta di impulsi, di accenti, di ripetizioni.

La parola nacchera è resistenza sottile

C’è una tendenza a relegare tutto ciò che ha radici popolari in un angolo di folklore rassicurante. Ma la parola nacchera è scomoda per chi cerca solo bellezza levigata. Non si lascia usare come decorazione. È uno strumento povero ma rigoroso. Pretende attenzione. Richiede precisione. Non tollera la superficialità.

La nacchera non finge. È diretta, netta, quasi brutale nella sua essenzialità. E forse è proprio per questo che l’abbiamo allontanata. Perché la parola nacchera ci costringe a fare i conti con un ritmo che non possiamo controllare, con una cadenza che nasce da un sapere incarnato, non codificabile.

Riabilitiamo la parola nacchera perché c’è una forma di disciplina nella ripetizione, una forma di verità nella battuta che ritorna. Ogni colpo è un promemoria: siamo ancora qui, ancora vivi, ancora capaci di dire senza mediazioni.

Una parola che vibra anche nel silenzio

Nacchera è anche ciò che resta quando tutto tace. Quando non abbiamo più parole, ma abbiamo ancora il gesto. Quando il ritmo diventa rifugio. Quando un suono secco è tutto ciò che ci tiene svegli. Non è rumore: è affermazione minima. È dire con il poco. Con il necessario.

In un tempo in cui tutto è pieno, continuo, verboso, la parola nacchera ci invita a semplificare. A togliere. A lasciare che sia il gesto a parlare. E che il gesto parli proprio perché non si spiega, ma si fa.

Riabilitiamo la parola nacchera per restituirle la sua funzione originaria: marcare il tempo, rendere visibile l’intenzione, permettere al corpo di farsi voce. Una voce che non argomenta, ma afferma. Che non persuade, ma risuona. E che, proprio per questo, resta.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #145
📖 Non tutto si dice con le parole. Alcune cose hanno bisogno del suono secco di una mano che batte, e di una parola che non si lascia zittire.



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