La parola labaro ci arriva da un tempo in cui ogni simbolo aveva un peso. Oggi la si incontra solo in occasioni solenni, cerimoniali, spesso dimenticate. Ma la parola labaro non è solo un drappo, un ornamento da processione. È un segno. Una dichiarazione. È ciò che si tiene alto quando tutto vacilla. È ciò che si porta davanti, anche se è pesante. Per questo riabilitiamo la parola labaro: per ricordarci che ogni cammino ha bisogno di un volto visibile. Di un emblema da esporre, anche in mezzo al vento.
Il labaro non è una bandiera
C’è differenza tra un labaro e una bandiera. La bandiera può sventolare ovunque. Il labaro, no. Ha un contesto. Una funzione. È legato al lutto, alla memoria, alla resistenza. Non chiama all’orgoglio, ma alla responsabilità. La parola labaro evoca una forma di fedeltà. Di coerenza silenziosa. Di appartenenza senza spettacolo.
Chi porta un labaro non cerca attenzione. Cammina. Regge. Rappresenta. Tiene viva una storia anche quando quella storia è stata dimenticata. La parola labaro ci parla di questo: della forza muta di chi non abbandona il proprio posto.
Riabilitiamo la parola labaro perché abbiamo bisogno di qualcosa che non si pieghi. Di un punto fermo. Di un segno che non si dissolve nelle opinioni.
Un oggetto che cammina con noi
Non c’è labaro senza mani che lo reggano. Non esiste senza un corpo che lo espone. È una cosa che si porta, non che si guarda. Per questo la parola labaro ci riguarda. Perché parla di ciò che ci incarica. Di ciò che portiamo con noi anche quando nessuno ce lo chiede.
Il labaro non serve a decorare. Serve a custodire. A volte non è bello. A volte è pesante. A volte non capiamo neanche più cosa rappresenta. Ma lo teniamo alto. E lo facciamo per qualcosa che ci supera. Un nome, un luogo, una causa, un dolore che non vogliamo dimenticare.
Riabilitiamo la parola labaro per ridare spazio alla memoria che non fa rumore. Alla dedizione che non chiede riconoscimento. Alla presenza che non ha bisogno di parole.
Portare il labaro è un atto politico
Non nel senso di parte. Ma nel senso di gesto pubblico, visibile, deliberato. Portare un labaro significa esporsi. Dichiarare: io sto qui. Io tengo. Io cammino con qualcosa davanti, che non parla di me, ma che mi attraversa.
La parola labaro ci ricorda che non tutto va tenuto dentro. Che alcune cose, per vivere, devono essere esposte. E non per mostrare superiorità, ma per fare segno. Perché a volte serve vedere che qualcuno regge ancora. Che qualcuno c’è, anche solo per dire “non ho dimenticato”.
Riabilitiamo la parola labaro per non lasciare che tutto si sciolga nell’invisibile. Per riportare al centro il gesto di chi porta, regge, non cede.
Un gesto che non si improvvisa
Portare un labaro non è un atto casuale. È un’eredità presa in carico. Un incarico silenzioso, ma visibile. Chi tiene un labaro non si mette al centro. Si mette davanti. E questo fa la differenza. Lo fa non per farsi notare, ma per ricordare a tutti qual è la direzione.
La parola labaro è legata al passo. Al ritmo lento. A un cammino che dura. È parola di chi non ha bisogno di affermarsi, ma sceglie di custodire. Di reggere. Di attraversare lo spazio senza perderne il senso.
Un emblema per ciò che resta
Nel tempo delle opinioni leggere, dei cambiamenti rapidi, dei simboli svuotati, la parola labaro è scomoda. È troppo solenne, troppo seria, troppo legata alla gravità. Ma è proprio questo il suo valore. È una parola che non cede al disincanto. Che non si lascia riscrivere dal cinismo.
Riabilitiamo la parola labaro per dare un nome alla fedeltà che resta. Alla coerenza che non grida. Alla memoria che cammina. Anche quando nessuno guarda.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #143
📖 Ciò che resta in piedi è spesso ciò che qualcuno, in silenzio, ha continuato a portare.