Riabilitiamo la parola iatrogeno

Riabilitiamo la parola iatrogeno


La parola iatrogeno è una di quelle parole che fanno rumore anche nel silenzio. Evoca danno, responsabilità, ambiguità. La parola iatrogeno nasce per indicare un male causato da ciò che dovrebbe guarire. Non si limita a nominare un errore: indica un paradosso. È una parola che scomoda, perché costringe a guardare in faccia il fallimento involontario della cura, il lato oscuro dell’aiuto, la possibilità che il gesto premuroso si trasformi in ferita. E proprio per questo merita di essere restituita.

Il danno che viene dal bene

Ci fidiamo di chi cura. Di chi ha una diagnosi, una soluzione, un protocollo. Eppure, anche da lì può arrivare il colpo. Non per malizia, ma per limite. Per eccesso. Per sistema. La parola iatrogeno ci ricorda che anche l’intenzione migliore può produrre dolore. Che anche il gesto più rassicurante può avere un’ombra. E che nessuna buona volontà basta, se non è accompagnata da ascolto, da presenza, da dubbio.

Viviamo in un’epoca in cui la cura è diventata industria, procedura, standardizzazione. Parlare di iatrogenicità è come accendere una luce proprio lì dove nessuno vuole guardare. Non per giudicare. Ma per comprendere.

La cura che fa male

La parola iatrogeno non appartiene solo al linguaggio medico. Esiste una iatrogenicità affettiva, educativa, linguistica. Quante volte una parola detta per “il tuo bene” ha lasciato un taglio? Quante volte un consiglio sollecito ha svuotato invece di rafforzare? Ci sono mani che carezzano e intanto spingono via. Ci sono frasi che vogliono guarire e invece costringono.

Il male iatrogeno nasce spesso così: con una premura sbagliata, con un’aggiustatura che non era necessaria, con un intervento che dice all’altro “da solo non puoi farcela”. E in quel messaggio, c’è già la frattura.

Il paradosso dell’assistenza

Restituire la parola iatrogeno significa rimettere in discussione l’idea stessa di aiuto. Non per negarne il valore, ma per ricordare che l’assistenza non è un gesto unilaterale. Chi cura non è superiore a chi soffre. Non è più forte, né più lucido. È solo temporaneamente in grado di accompagnare. Ma se dimentica l’umiltà, se dimentica che anche il curante può ferire, l’equilibrio si spezza.

A volte, il silenzio è più curativo della parola. A volte, lasciare che l’altro resti nella sua crisi senza invaderlo è l’atto più etico possibile.

Ogni effetto collaterale ha una voce

La parola iatrogeno può anche essere ascoltata come una voce laterale, una forma di messaggio che sfugge ai canali principali. Quando qualcosa che dovrebbe guarire comincia a fare male, forse ci sta indicando un punto cieco. Una resistenza. Un bisogno inespresso. Una domanda non ascoltata.

Il sintomo non è sempre il problema. Spesso è la forma che ha trovato la verità per farsi ascoltare. L’effetto collaterale, il rigetto, la reazione sono linguaggi. Ma vanno letti, non soppressi.

La responsabilità dell’impatto

La parola iatrogeno ci obbliga a una responsabilità nuova: quella delle conseguenze invisibili. Chi cura, chi accompagna, chi aiuta deve chiedersi: sto facendo questo per l’altro o per sentirmi utile? Lo sto ascoltando o lo sto interpretando?

Ogni gesto, anche se mosso da compassione, può contenere un veleno. Ma solo chi è disposto a interrogarsi sul proprio potere può evitarlo. Riabilitare questa parola significa rifiutare il mito dell’infallibilità della cura. Significa ammettere che anche l’aiuto può dominare, anche la mano tesa può premere.

Per una cura consapevole

Non si tratta di rinunciare a curare, ma di farlo con consapevolezza. Di non dare nulla per scontato. Di non pensare che il bene sia una forma unica, universale, applicabile a tutti. La parola iatrogeno ci chiede di tornare alla fragilità, alla domanda, al dubbio.

Solo così la cura può tornare a essere un gesto umano. Non una soluzione, ma una presenza. Non una risposta, ma un cammino accanto.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #179
🔤 Ci sono cure che fanno male e parole che, credendo di guarire, tagliano più in fondo. La vera medicina comincia quando accettiamo di non sapere tutto.



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