La parola gabbamondo ha il suono di una beffa pronunciata con il sorriso sulle labbra. Evoca un personaggio che inganna e viaggia, che racconta storie per sfuggire alla fame o alla verità. Oggi la si usa poco, ed è un peccato. Perché la parola gabbamondo custodisce un’intera figura archetipica: quella del vagabondo che sopravvive a suon di parole, che si muove leggero, che conosce il mondo ma non vi si radica.
Un inganno con dentro il bisogno
Il gabbamondo non è un truffatore da romanzo nero. È un funambolo dell’adattamento. Racconta ciò che serve per restare a galla. Non costruisce castelli, ma piccole trappole verbali con cui ottiene un pasto, un letto, un ascolto. La parola gabbamondo non ha la crudeltà del ladro: ha la malinconia del narratore che si è inventato mille vite per non morire nella propria.
Ecco perché va restituita. Perché oggi che tutto deve essere autentico e trasparente, dimentichiamo che a volte si mente per necessità, per gioco, per protezione.
La sopravvivenza attraverso la voce
Nel gabbamondo vive ancora la tradizione orale. È un cantastorie decaduto, un affabulatore di strada, un ex attore senza scena. Vive raccontando. Inventa, mescola, distorce. Non sempre per danneggiare, ma per incantare, confondere, ottenere. La parola gabbamondo ci parla di una lingua che non è scritta, ma detta. Di un sapere che non si conserva in biblioteche, ma tra le pieghe della strada.
È il sapere dei margini. Quello che non ha patria ma conosce tutte le lingue. Quello che si muove senza fissa dimora, ma sa sempre dove trovare uno spazio.
L’arte della maschera fragile
Il gabbamondo non è solo chi inganna: è anche chi si traveste. Chi cambia nome, chi adatta la propria biografia al contesto. La parola gabbamondo racconta la maschera, ma non quella teatrale: quella quotidiana, fragile, necessaria. È la maschera del sopravvissuto, non del bugiardo. Una maschera che a volte cade, ma che serve a evitare il disprezzo del mondo.
In questa figura c’è qualcosa di profondamente umano. Non è l’eroe, non è il saggio, non è nemmeno il buffone. È quello che sta nel mezzo. Che finge, ma non per potere: per restare.
Il valore del disallineamento
Oggi che tutto è monitorato, autenticato, tracciato, la parola gabbamondo è una fenditura nel controllo. È la possibilità di non essere chi si è sempre stati. Di cambiare racconto. Di deviare. Il gabbamondo ci ricorda che non sempre l’identità è una cosa fissa, e che a volte è proprio chi non si lascia inquadrare a dire la verità più profonda.
Certo, può ferire. Ma anche il linguaggio istituzionale ferisce, con le sue etichette. Il gabbamondo non impone: seduce. E nel farlo, ci mette davanti alle nostre finzioni più solide.
La poesia dell’impostore
Restituire la parola gabbamondo significa anche riconoscere che esiste una forma di poesia nell’impostura. Quando chi inganna lo fa con grazia, crea una zona sospesa in cui la verità non è negata, ma solo rimandata. Il gabbamondo sa che ogni racconto è parziale, e gioca con questo limite. Sa che l’identità è un esperimento continuo, una forma mutevole, e che dietro ogni maschera c’è un frammento reale.
Non c’è finzione senza tracce di verità. E a volte proprio chi mente ci restituisce un’immagine più nitida di ciò che vogliamo ignorare.
Una parola che non chiede permesso
La parola gabbamondo non si scusa per esistere. Non cerca approvazione. È libera. E la libertà oggi dà fastidio. In un mondo di biografie perfette e narrazioni coerenti, il gabbamondo inciampa, devia, esagera. Ma proprio per questo ci serve. Per ricordarci che si può ancora raccontare senza essere veri. Che anche una bugia detta con arte può illuminare un punto cieco della realtà.
Non dobbiamo diventare gabbamondo. Ma forse dovremmo smettere di credere che chi non si conforma sia sempre un nemico. A volte è solo qualcuno che ha imparato a vivere raccontando.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #177
🔤 Chi inganna con le parole forse non vuole ingannare te. Vuole solo continuare a esistere in un mondo che non fa spazio a chi cambia voce ogni giorno.