La parola fabbisogno non è elegante. Non è fluida. Non è cool. È secca, rigida, amministrativa. La si usa nei bilanci, nei documenti, nei piani di emergenza. Ma raramente si porta nel quotidiano. Eppure la parola fabbisogno dice qualcosa che tutte le altre parole di oggi sembrano evitare: ciò di cui abbiamo davvero bisogno. Non ciò che vogliamo. Non ciò che ci attrae. Ma ciò che ci serve per restare in piedi.
Un termine tecnico che nasconde una fame
Ci hanno insegnato a sostituire il bisogno con il desiderio, l’esigenza con l’obiettivo, la necessità con la performance. Ma il fabbisogno resta lì, silenzioso, duro. Parla di mancanze vere. Di vuoti che non si colmano con distrazioni. Di ciò che manca per vivere, non per emergere.
La parola fabbisogno è un indicatore invisibile. Non la trovi nelle conversazioni, ma la trovi nei corpi. Nelle ore che mancano al riposo. Nelle attenzioni che non ricevi. Nei soldi che non bastano. Nelle parole che nessuno pronuncia più per te. È una misura che non si dichiara, ma che agisce. E che segna la distanza tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere.
Riabilitiamo la parola fabbisogno per riportare a galla ciò che non è spettacolare, ma essenziale. Per dare dignità all’assenza, al limite, alla richiesta che non fa rumore. Perché il fabbisogno è ciò che ci definisce quando crollano i ruoli, i titoli, le maschere.
Riabilitiamo la parola fabbisogno per sottrarla all’economia
Oggi la sentiamo quasi solo in frasi come “fabbisogno energetico”, “fabbisogno statale”, “fabbisogno sanitario”. Ma dietro quell’uso freddo e tecnico, c’è una parola che può essere restituita al suo valore originario: un termine che parla del corpo, del vivere, del necessario.
La parola fabbisogno non ha nulla di estetico. E proprio per questo può essere vera. Nomina la base. La soglia sotto la quale qualcosa si rompe. È la differenza tra ciò che vorremmo avere e ciò che non possiamo non avere.
Usarla di nuovo, nel linguaggio quotidiano, vuol dire riconoscere che non tutto è fluido, negoziabile, digitale. C’è ancora una realtà fatta di bisogni veri, misurabili, vitali. E il linguaggio deve poterlo dire. Deve poterlo reggere.
Una parola per chi non alza la voce
La parola fabbisogno ha il passo lento di chi non urla. Non cerca attenzione. Non seduce. Ma resta lì, sotto traccia, e insiste. C’è chi ha un fabbisogno d’amore, ma non lo dice. Chi ha un fabbisogno di silenzio. Di riparo. Di tregua. Chi ha bisogno di qualcosa di minimo e non lo trova da nessuna parte. Nessuna app lo misura. Nessuna dashboard lo segnala.
Riabilitiamo la parola fabbisogno per dare spazio a queste assenze mute. Per parlare di quel che manca senza paura di sembrare fragili. Perché il fabbisogno è la nostra misura interiore prima che esteriore. E chi lo ignora, si perde.
Tornare al necessario, senza vergogna
Non c’è nulla di misero nel dichiarare un fabbisogno. Al contrario: è un atto radicale di verità. Significa dire “non ho tutto”. Significa ammettere una dipendenza dalla realtà. Un legame con qualcosa che non posso fingere. E questa ammissione, in un mondo che esige autonomia e perfezione, è un gesto di coraggio.
La parola fabbisogno non cerca di abbellire la mancanza. La nomina. La rende visibile. E forse, proprio per questo, permette di iniziare a colmarla.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #137
📖 Ciò che manca non è sempre un difetto. A volte è la forma precisa di ciò che siamo.