La parola ebbrezza è diventata sospetta. Troppo intensa, troppo fragile, troppo vicina alla perdita di controllo. Oggi si preferiscono termini più gestibili: emozione, entusiasmo, piacere. Ma la parola ebbrezza non è un eccesso. È un varco. È un’apertura inaspettata. È quel momento breve e assoluto in cui qualcosa dentro di noi si sposta, si solleva, si accende.
La vertigine che ci attraversa
C’è qualcosa nella parola ebbrezza che inquieta, perché non si può comandare. Non la scegli: ti arriva. Ti prende. Ti travolge con grazia o ti solleva con violenza. È un linguaggio che passa dal corpo, dallo stomaco, dalla pelle. Non si lascia misurare. Non chiede permesso. Non accetta compromessi.
Viviamo in un tempo che controlla, monitora, bilancia. Ma l’ebbrezza non si dosa. Non si pianifica. È il contrario della strategia. È il luogo in cui si spezzano le linee rette. In cui l’anima — per pochi secondi — si espande fuori misura. E non sempre è gioia. Può essere nostalgia, desiderio, eccesso. Può essere anche paura.
La parola ebbrezza non è solo festa
La pubblicità ce l’ha rubata, trasformandola in qualcosa di alcolico, di patinato, di festoso. Ma la parola ebbrezza non riguarda solo lo champagne e la notte. È anche il battito che accelera davanti a una possibilità. È lo sguardo che vacilla quando ci si lascia vedere. È la sensazione che si prova quando qualcosa ci supera, e non sappiamo ancora se saremo capaci di contenerlo.
Riabilitiamo questa parola perché nomina una soglia. Quella in cui ci scopriamo vulnerabili, vivi, sfalsati. Ebri. Non persi, ma spostati. Fuori asse. Fuori controllo — nel senso più sacro del termine.
Riabilitiamo la parola ebbrezza per non perdere il rischio
Oggi si tende a evitare tutto ciò che ci destabilizza. Ma la vita vera destabilizza. Sempre. Non c’è autenticità senza sbilanciamento. E la parola ebbrezza ci ricorda proprio questo: che c’è una sapienza nel lasciarsi travolgere. Che perdere per un attimo la presa può voler dire aprire una fessura in cui passa qualcosa di più grande.
L’ebbrezza non è confusione. È intensità. Non è distrazione. È rivelazione. Arriva quando smettiamo di trattenere. Quando il corpo parla prima della mente. Quando qualcosa — uno sguardo, una musica, un silenzio — ci porta altrove.
In una cultura che premia l’equilibrio, la performance, la lucidità, la parola ebbrezza è un atto poetico. È un richiamo. È l’affermazione che siamo più vasti delle nostre intenzioni. Che possiamo anche perderci, per un attimo. E ritrovarci meglio.
Non è disordine, è rivelazione
La parola ebbrezza abita il margine tra consapevolezza e smarrimento. Non è follia, ma uno scarto improvviso nella percezione. Quando accade, il mondo resta lo stesso — ma qualcosa cambia dentro di noi. Un dettaglio si illumina, una tensione si scioglie, un pensiero prende fuoco. Non c’è metodo per l’ebbrezza: solo apertura. Solo presenza.
Ed è proprio per questo che ci fa paura. Perché non possiamo fingere di dominarla. Ci mette in ascolto. Ci costringe a lasciar andare l’equilibrio narrativo con cui raccontiamo le nostre giornate. E ci chiede di sentire. Di essere toccati.
Riconoscerla senza volerla addomesticare
Non si tratta di evocarla a comando. Non si tratta di cercarla come fosse un premio. La parola ebbrezza non risponde ai nostri desideri: accade. E quando accade, possiamo solo accoglierla.
Riabilitiamo la parola ebbrezza per poterla dire senza paura. Per poterla abitare senza doverla giustificare. Perché anche l’eccesso può essere verità. Anche la perdita temporanea dell’equilibrio può essere un dono. E anche l’anima ha bisogno, a volte, di vacillare per ricordarsi che è viva.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #136
📖 Non serve restare saldi. A volte è nell’ebbrezza che troviamo ciò che ci mancava.