Riabilitiamo la parola ebanisteria

Riabilitiamo la parola ebanisteria


La parola ebanisteria giace dimenticata in qualche angolo della lingua, come un mobile coperto da un telo in una bottega che non apre da anni. Non è solo un termine tecnico: è il suono di un sapere lento, il respiro di mani che hanno imparato a scolpire il tempo. Oggi, la parola ebanisteria sopravvive più nei musei che nelle conversazioni. Eppure ha ancora qualcosa da dire, a chi sa ascoltare il legno quando scricchiola.

Una parola costruita con pazienza

La parola ebanisteria non nasce per caso. È figlia dell’ebano, un legno denso, scuro, prezioso. Ma più ancora, è figlia di un gesto: quello dell’artigiano che non lavora in serie, ma in ascolto. L’ebanista non produce: accompagna la materia verso una forma che già esiste, ma che va liberata. La ebanisteria è questo: arte silenziosa, precisione rituale, rispetto per la lentezza. È la scultura della funzionalità, ma con dignità simbolica.

In tempi che premiano la velocità, questa parola rallenta tutto. Parla di attenzione, di finiture invisibili, di dettagli che nessuno nota ma che fanno la differenza tra un oggetto e un’opera.

Quando le parole odorano di legno

Ci sono parole che hanno un odore. La parola ebanisteria profuma di trucioli, di vernici naturali, di spazi pieni di silenzio e luce obliqua. È una parola che viene dalla bottega, non dall’aula. Che si è formata nel tempo, tra un errore e una ripetizione. Quando la pronunciamo, ci costringe a rallentare anche solo per la sua sonorità. Non si dice in fretta. Non si urla. Si lascia pronunciare come si sfiora una superficie levigata.

Ecco perché questa parola va restituita: perché abita una dimensione del fare che oggi è dimenticata, ma non perduta.

Dalla superficie all’anima

Riabilitare la parola ebanisteria significa anche riscoprire la differenza tra ciò che è costruito per durare e ciò che è fabbricato per essere sostituito. La cultura dell’ebanista non è solo tecnica: è filosofica. Ogni tavolo, ogni anta, ogni giunzione invisibile è una dichiarazione di presenza, una preghiera silenziosa contro l’usa e getta.

Questa parola, nel suo stesso suono, ci parla di un tempo in cui le cose erano fatte per accompagnare la vita, non per riempirla. Un tempo in cui anche il gesto più semplice poteva diventare sacro, se fatto con cura.

Non solo mobili

La parola ebanisteria non deve restare chiusa nella categoria dei mestieri. Può diventare metafora. Dell’ascolto. Dell’intaglio interiore. Del lavoro su di sé. Essere ebanisti della propria vita significa scegliere di non prendere scorciatoie, di rifinire anche ciò che non si vede, di dedicare tempo al dettaglio che regge tutta la struttura.

In questo senso, la ebanisteria è una forma di meditazione in movimento, una calligrafia delle mani che può essere applicata anche alla scrittura, alle relazioni, al modo in cui si abita lo spazio.

Una parola che va lasciata tornare

Restituire la parola ebanisteria non è nostalgia. È una forma di resistenza. È dire che esiste ancora un modo di toccare le cose con rispetto, di nominare ciò che ha una storia, di abitare il tempo con lentezza senza per questo essere fuori tempo. È dare un nome a un sapere che non ha fretta, a una bellezza che non deve stupire, ma restare.

Non è necessario aprire botteghe per far rivivere questa parola. Basta ricominciare a trattare la lingua come si tratta il legno: con pazienza, con attenzione, con la consapevolezza che anche una parola può farsi mobile, rifugio, casa.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #175
🔤 Ogni parola levigata nel tempo torna a essere casa. Anche se per anni è stata polvere sotto un telo che nessuno aveva più il coraggio di sollevare.



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