Riabilitiamo la parola danaro

Riabilitiamo la parola danaro


La parola danaro è stata messa in un angolo. Superata, accantonata, sostituita dalla sorella più educata: “denaro”. Una modifica apparentemente lieve, ma significativa. Perché la parola danaro ha un suono più sporco, più vero, più terreno. Non ha la distanza elegante della parola bancaria. È cruda, è immediata. Ha qualcosa che inquieta. E come tutte le parole che inquietano, è stata silenziata.

La parola danaro è materia

Il danaro non è solo un mezzo di scambio. È materia viva. Pesa. Passa di mano. Lascia tracce sulle dita, sulla coscienza, sulle relazioni. La parola danaro non nasconde questa corporeità. Non cerca di sublimare. Non è asettica. Porta con sé il gesto, il bisogno, la fame, la possibilità. Non è una voce di bilancio. È una voce umana.

Scegliere di dire “danaro” è un atto di disobbedienza linguistica. È rompere la patina della correttezza, della forma neutra, del linguaggio finanziario pulito. È riportare la parola al baratto, al sudore, all’affanno, al desiderio. La parola danaro è scomoda perché mostra ciò che il denaro copre.

La parola danaro sa da dove viene

A differenza del suo doppio più tecnico, “danaro” sa di passato. Sa di contadini, di artigiani, di debiti segnati col gesso, di monete nel pugno. Sa di transazioni fatte senza ricevuta, ma con lo sguardo. È una parola che viene dalla terra, non dalle sale riunioni.

La parola danaro contiene in sé la memoria di ciò che valeva prima che tutto diventasse digitale, tracciabile, fiscalmente corretto. È il contrario della finanza fluida. È una parola con attrito. Una parola che non scorre via. Una parola che resta addosso.

Quando dici “danaro”, il suono stesso vibra più basso, più concreto. Non c’è la patina astratta delle economie astratte. C’è un senso di scambio, di necessità, di sopravvivenza. C’è l’odore del ferro, del pane, della mano che tende e della mano che stringe.

Riabilitiamo la parola danaro per toglierle il disprezzo

C’è un disprezzo silenzioso che accompagna chi usa questa parola. È troppo popolare, troppo vecchia, troppo “di pancia”. Ma il danaro, nella vita vera, si sente nella pancia. Non vive nei fogli Excel. Vive nelle scelte quotidiane, nei compromessi, nelle rinunce.

Riabilitiamo questa parola per restituirle dignità. Non quella dorata dell’accumulo, ma quella concreta del necessario. Del giusto. Del possibile. La parola danaro non è volgare. È diretta. Non è riduttiva. È reale.

Dire “danaro” è dire le cose come stanno. Senza moralismi, senza illusioni. È dire: “questo mi serve”. È dire: “non ce l’ho”. È dire: “l’ho guadagnato”. È dire: “mi manca”. È dire: “lo tengo stretto”. È dire: “lo butto via”. Tutto questo non lo dice “denaro”. Lo dice la parola danaro.

E soprattutto, danaro non è solo una quantità. È una tensione. È ciò che muove, divide, lega, sposta. È una materia che cambia forma a seconda di chi la guarda. Per qualcuno è una mancanza. Per altri un’ossessione. Per altri ancora, una resa. Ma è sempre presente. Anche quando non c’è.

Dire danaro è restare umani

Nella cultura contemporanea, il danaro è diventato un simbolo di potere, successo, controllo. Ma la parola danaro ci ricorda che può essere anche bisogno, paura, soglia. È un linguaggio che non ambisce a salire di livello, ma a restare nel corpo. A dire senza abbellire. A raccontare una storia attraverso ciò che passa di mano.

Riabilitiamo la parola danaro per tornare a parlarne senza vergogna, senza arroganza, senza finzioni. Perché se il linguaggio è carne, anche il valore lo è. E la parola danaro è un modo per ricordarlo. Una parola che non fa finta di nulla. Una parola che non si traveste. Una parola che conosce il suo peso e lo porta senza eleganza, ma con verità.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #135
📖 Il danaro non è una cifra. È un gesto che resta sulla pelle.



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