La parola cabala è una delle più fraintese, piegate, maltrattate del nostro linguaggio. Viene evocata con sospetto, usata a volte per alludere a complotti, altre volte per rivendicare un sapere segreto. Il suo suono è diventato ombra. Ma la parola cabala, nella sua essenza originaria, non parla di oscurità: parla di ricezione, di ascolto profondo, di un sapere che si lascia accadere.
Una parola esiliata dalla fiducia
Per molto tempo, la parola cabala è stata accompagnata da un alone di mistero carico di ambiguità. Nei contesti popolari, è diventata sinonimo di macchinazione, di trame nascoste, di poteri occulti che muovono i fili del mondo da dietro il sipario. Questo significato secondario, insinuatosi nel tempo, ha esiliato la parola dal campo della fiducia. Eppure, la cabala nasce proprio come una via di accesso alla conoscenza sacra, alla struttura segreta della realtà, non come un artificio per controllarla.
Ogni volta che nominiamo la cabala con timore, stiamo parlando del nostro rifiuto del simbolico. Abbiamo paura di ciò che non possiamo misurare, di ciò che non si spiega in due righe, e allora lo marchiamo come pericolo. Ma è un pericolo solo per chi ha dimenticato come si ascolta.
La radice invisibile: ricezione
Il cuore semantico della parola è limpido: qabbālāh, in ebraico, significa “ricezione”. Non dominio, non proprietà, ma disponibilità ad accogliere. Ricevere implica vuotare uno spazio interiore, riconoscere che il senso non si fabbrica: si riconosce. In questo senso, la parola cabala è l’opposto di un codice segreto: non serve a chi vuole controllare, ma a chi è disposto a lasciarsi attraversare da qualcosa che non possiede.
Ricevere è un gesto rivoluzionario in un’epoca che vuole sempre dire, sempre spiegare. La cabala non si legge: si riceve. È un suono antico che vibra se ci si ferma. È un alfabeto che non ha bisogno di spettatori, ma di testimoni.
Il corpo della parola
Parlare della parola cabala significa anche toccarne il corpo. Le lettere che la compongono non sono semplici segni grafici, ma elementi vibranti. Nella tradizione ebraica, ogni lettera ha un’anima, un valore numerico, una funzione creativa. Le parole non sono mai casuali. Sono architetture simboliche. E cabala è una di queste architetture: una casa della comprensione che non si costruisce dall’esterno.
Oggi il linguaggio si è ridotto a contenitore. Dobbiamo ricordare che una parola può ancora essere contenuto, storia, significato. La cabala lo è. È una parola che si scrive lentamente, che va pronunciata in silenzio, che non cerca definizioni ma sintonie.
Dalla merce al gesto
Nel mondo contemporaneo, anche la parola cabala è stata trascinata nel mercato del simbolico svuotato. È diventata estetica da copertina, feticcio da salotto, parola da citare per sentirsi profondi. Ma non c’è profondità senza attraversamento. La cabala non è un ornamento. È un gesto. E ogni gesto ha bisogno di intenzione.
Restituire questa parola significa sottrarla al consumo e riportarla al gesto. Riconsegnarla a chi è disposto a non capire tutto. A chi accetta di lasciar decantare il significato. A chi sa che le parole non servono a coprire il silenzio, ma ad attraversarlo.
Una parola che può restare
Oggi più che mai, la parola cabala può tornare ad abitare la lingua non come reliquia, ma come soglia. Una soglia per entrare nel senso più profondo della realtà, anche senza mappe. Le parole che resistono sono quelle che non si piegano alla spiegazione. La cabala resta perché non si lascia tradire. Non vuole essere capita subito. Vuole essere custodita.
E allora non serve dirla a tutti. Serve lasciarla libera. E chi la incontrerà con rispetto, senza l’urgenza di possederla, forse scoprirà che alcune parole non illuminano: proteggono.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #173
🔤 Ci sono parole che non vanno capite. Vanno lasciate intere, perché è nel loro silenzio che impariamo a ricevere.