Riabilitiamo la parola babelico

Riabilitiamo la parola babelico

La parola babelico non è un semplice aggettivo. È una visione. È una crepa nella superficie ordinata del linguaggio. È ciò che resta quando troppe voci parlano insieme e nessuna viene ascoltata. In un tempo che confonde connessione con comprensione, la parola babelico torna a essere necessaria. Non per descrivere il caos in sé, ma per riconoscere l’effetto collaterale della moltiplicazione incontrollata dei significati.

Quando tutto parla, niente risuona

Viviamo immersi in ambienti babelici. Social network babelici, dibattiti babelici, relazioni babeliche. Parlare non basta più, ascoltare è diventato un lusso. Siamo circondati da messaggi, dichiarazioni, commenti, analisi, storie. Ma a ogni aggiunta, qualcosa si perde. Il silenzio. Il tempo. L’eco.

La parola babelico non è solo confusione: è l’impossibilità di orientarsi tra troppe direzioni. È lo smarrimento linguistico travestito da abbondanza. È il sovraccarico comunicativo che ci priva della profondità. È la parola giusta per nominare il collasso semantico. Quel momento in cui parliamo, scriviamo, condividiamo, ma niente si incide davvero. Niente sedimenta. Niente tocca.

La parola babelico come sintomo della rete

Ogni giorno partecipiamo a un esperimento babelico. Centinaia di messaggi, video, voci, notifiche, input. Tutto simultaneo. Tutto urgente. Tutto visibile. Ma cosa resta?

La parola babelico descrive esattamente questo: l’effetto vertigine. L’accumulo di linguaggi che si sovrappongono, si confondono, si annullano. È la parola che ci permette di dire “sto affogando nel significato, non nella mancanza”. Non è la parola del vuoto, è la parola dell’eccesso. E l’eccesso, oggi, è la vera assenza.

Eppure, il lessico corrente sembra preferire termini più blandi: sovraccarico, multitasking, info-noise. Parole tecniche, spuntate, incolori. La parola babelico invece ha una verticalità che spaventa. Porta con sé un immaginario arcaico e profetico. La torre. La punizione. L’impossibilità di capirsi. Ma anche la possibilità di ripensare ogni comunicazione come atto sacro.

Riabilitiamo la parola babelico per disinnescare il rumore

Riabilitare questa parola significa riconoscere il rumore come condizione di sistema. Non è più un incidente: è la norma. La chiarezza è diventata sospetta, il dubbio un effetto collaterale della velocità.

La parola babelico è un argine simbolico. Un invito a rallentare. A distinguere. A cercare ordine non nella semplificazione, ma nella profondità. Non si tratta di voler tornare all’unità perduta. Si tratta di restare coscienti dentro la frattura.

Riabilitiamo questa parola per ricordarci che non tutto ciò che comunica, comunica davvero. E che non tutto ciò che si capisce, vale la pena di essere detto.

Il rischio maggiore oggi non è il silenzio, ma l’accumulo. Non l’assenza, ma la saturazione. L’orizzonte babelico non è più una minaccia: è lo sfondo invisibile. E se non lo riconosciamo, rischiamo di normalizzare l’assenza di senso.

Oltre la confusione: costruire senso

Non esiste più una lingua unica, e forse è un bene. Ma nel molteplice possiamo scegliere di abitare con attenzione. Possiamo ascoltare una parola alla volta. Possiamo imparare a non urlare anche se tutti urlano.

La parola babelico ci aiuta a nominare il disorientamento senza subirlo. A riconoscere che il caos non va evitato, ma decifrato. Che non serve capirlo tutto: basta restare presenti mentre ci attraversa.

Babelico non è solo ciò che è confuso. È ciò che ha smarrito il centro nel tentativo di comprendere tutto. È ciò che ci seduce con la promessa di totalità e ci restituisce frammenti. È il linguaggio ipermoderno, iperprodotto, iperdisperso.

Riabilitiamo la parola babelico per costruire riparo. Per riconoscere che tra le voci può ancora nascere un canto. Ma prima bisogna scegliere a chi prestare l’orecchio. E quel gesto — scegliere — è già un atto di resistenza.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #133
📖 Distinguere senso nel disordine non per trovare pace, ma per tornare presenti.



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