Riabilitiamo la parola babau

Riabilitiamo la parola babau


La parola babau è sopravvissuta in qualche ninna nanna, nelle minacce bonarie delle nonne, tra le frasi smozzicate di chi voleva spaventare senza dire troppo. La parola babau non ha volto, non ha forma, ma agisce. Sta nell’ombra, nel corridoio buio, nel rumore che non si spiega. Riabilitiamo la parola babau perché parla di una paura arcaica, collettiva, che non ha bisogno di essere reale per essere potente. La parola babau non è solo un ricordo infantile: è una presenza simbolica. È ciò che temiamo ma non sappiamo nominare. È l’ignoto che respiriamo, anche da adulti, anche adesso.

Babau è il nome del senza nome

La parola babau designa ciò che non si vuole descrivere. È un contenitore di paura indifferenziata. Un’etichetta per il buio, per l’assenza, per l’altrove. Il babau non ha consistenza, eppure è reale. Vive nelle crepe della razionalità, nei silenzi non spiegati, negli ammonimenti lasciati a metà. Riabilitiamo la parola babau per restituire dignità a ciò che non ha spiegazione ma resta. A quelle presenze che ci accompagnano senza manifestarsi. Al terrore diffuso che nessuna logica scioglie.

Il babau è la metafora dell’inquietudine: non serve vederlo per sapere che c’è. Basta il suo nome per farci tornare in ascolto. Perché chi sente il babau, anche senza sapere cos’è, sa che c’è qualcosa che lo riguarda. Sa che dentro quella parola si muove una domanda senza risposta.

Il babau è l’infanzia che non dimentica

La parola babau appartiene alla lingua dell’infanzia, ma non è infantile. È un archetipo. Sta nei racconti popolari, nei canti scuri, nelle favole dette a bassa voce. Non è una minaccia reale: è il simbolo del limite. Il babau ci dice dove non possiamo andare. Dove ancora non sappiamo guardare. Riabilitiamo la parola babau per riconoscere che c’è una forma di educazione alla paura che non serve a bloccare, ma a proteggere. A dire: non tutto è spiegabile. E va bene così.

Anche da adulti continuiamo a usare figure simili. Cambiamo il nome, ma non la funzione. Ci inventiamo altri babau per dar forma all’ansia, al pericolo, al disordine. La differenza è che ora faticano a essere così onesti. Il babau, almeno, non pretende di essere vero. È onesto nella sua finzione.

Riabilitiamo la parola babau come confine narrativo

Ogni civiltà ha bisogno del suo babau. Non per spaventare, ma per delimitare. Per indicare un fuori. Per marcare la soglia tra ciò che è accettabile e ciò che ancora ci sfugge. La parola babau è una sentinella. Non entra nei nostri spazi, ma li protegge con la sua presenza invisibile. È il non detto che tiene in piedi l’equilibrio. È il mistero necessario.

Riabilitiamo la parola babau perché oggi viviamo in un’epoca che vuole illuminare tutto, razionalizzare tutto, controllare tutto. Ma alcune paure devono restare senza contorni. Perché servono a ricordarci che siamo fragili, permeabili, aperti. E che anche ciò che non vediamo ci modifica.

Babau è la soglia dove si ascolta meglio

La parola babau ci aiuta a stare nei pressi di ciò che non si capisce. Ci ricorda che l’ignoto ha un ruolo. Che il linguaggio serve anche a contenere l’incontenibile. Che le parole, a volte, non descrivono: proteggono. E in questo senso, il babau è una parola buona. Non fa male. Sta solo lì, a custodire un vuoto.

Riabilitiamo la parola babau per tornare a parlare anche delle paure che non fanno rumore. Di quelle che ci abitano senza bussare. E per ridare spazio a un lessico che non serve a chiudere, ma ad abitare il mistero. A farci compagnia, mentre impariamo a non capire tutto.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #172
📖 Babau è il nome dell’ombra che non vogliamo guardare, ma che ci segue. E che forse, solo quando la chiamiamo, smette di farci davvero paura.



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