Riabilitiamo la parola iattanza

Riabilitiamo la parola iattanza


Non c’è parola come la parola iattanza che, già al primo ascolto, susciti una vibrazione ruvida, quasi sgradevole. Suona antica, tagliente, come un oggetto dimenticato in fondo a un baule. Eppure la parola iattanza cela dentro di sé una forza simbolica che il nostro linguaggio contemporaneo tende a disperdere tra sinonimi blandi, più accettabili, meno rischiosi. Nel momento in cui si pronuncia, si sente tutta la distanza tra il coraggio dell’arroganza dichiarata e l’ipocrisia dell’umiltà di facciata. Recuperare la parola iattanza vuol dire restituire al lessico la possibilità di nominare un eccesso, di dare volto alla superbia che non si nasconde, ma si mostra con orgoglio e spudoratezza.

Iattanza come maschera e come ferita

La scena pubblica, oggi, è un teatro di posture. Qui la parola iattanza può finalmente tornare utile: c’è bisogno di chiamare per nome la vanagloria, la tracotanza, la necessità di essere riconosciuti non per ciò che si è, ma per come si appare. Iattanza è il linguaggio del petto gonfio, dello sguardo che sfida, del gesto che non si accontenta di passare inosservato. Ma c’è una seconda faccia: spesso dietro l’iattanza si cela una ferita, una domanda di attenzione che non trova ascolto. La parola iattanza, dunque, non è solo una condanna: è una lente che ci costringe a indagare le origini profonde della vanità, il bisogno antico di lasciare traccia, di essere visti davvero.

Il fascino oscuro della parola iattanza

C’è un’attrazione quasi magnetica nell’osservare chi incarna la parola iattanza. Forse perché la società predica umiltà, ma celebra la visibilità a ogni costo. Chi si muove con iattanza – sia in politica, sia nell’arte, sia nella vita quotidiana – mette a disagio, rompe l’ordine dei buoni sentimenti, mostra quanto fragile sia la linea tra ammirazione e disgusto. La parola iattanza ci sfida a non restare neutrali: costringe a prendere posizione, a confrontarsi con la forza brutale di chi si mette in mostra senza paura del giudizio. Ma la vera provocazione è domandarci quanta iattanza siamo disposti ad ammirare negli altri e quanta ne celiamo in noi stessi.

Iattanza e la fame di riconoscimento

Riabilitare la parola iattanza vuol dire anche riconoscere il bisogno universale di essere accolti, ascoltati, magari persino invidiati. Non tutta l’iattanza è sterile, non tutta nasce dal vuoto: a volte è la sola difesa possibile contro l’indifferenza, il modo più umano di gridare la propria presenza al mondo. Forse, sotto ogni gesto di iattanza, c’è un cuore che ha paura di scomparire. Forse, dare spazio alla parola iattanza nel nostro linguaggio è un modo per accogliere le ombre che ci abitano, per non cedere all’illusione che si possa vivere solo di discrezione e di silenzio.

Restituire senso alla parola iattanza

Alla fine, la parola iattanza ci invita a osservare senza moralismo le forme dell’ego, della sfida, del desiderio di lasciare segni visibili. Non si tratta di esaltare la superbia, ma di capire quanto la cultura dell’umiltà obbligatoria sia, a sua volta, una maschera. Riabilitare la parola iattanza significa tornare a nominare ciò che non si vuole vedere, a smascherare gli eccessi senza fingere che il desiderio di essere ammirati non esista. È un gesto di sincerità verso le nostre zone più esposte, e un modo per restituire al linguaggio la sua capacità di illuminare le crepe, le ferite e le vanità che attraversano ogni esistenza.


📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #218
🔤 Restituire la parola iattanza è accettare che ogni luce proietta un’ombra, e ogni vanità racconta la fatica di essere visti davvero.



Condividi questo post
Riabilitiamo la parola hacking

Riabilitiamo la parola hacking

Riabilitiamo la parola jamming

Riabilitiamo la parola jamming

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

I miei Social

Su Nemesis UFT

Autore

Scrive da un punto imprecisato tra il mondo che c’è e quello che potrebbe esistere.
Non cerca followers, cerca fenditure.
Non insegna nulla, ma disobbedisce per mestiere.
La sua mappa non ha nord: ha crepe, deviazioni, direzioni non autorizzate.
Vive in silenzio, ma scrive forte.
È uno che cammina fuori traccia.
E non per sbaglio.