La parola babbeo è una ferita verbale nascosta dietro un sorriso di sufficienza. Una di quelle parole che si usano per ridere di qualcuno, ma che nel ridere lo scoloriscono, lo svuotano, lo condannano a non essere preso sul serio. Eppure, la parola babbeo custodisce un’altra storia: non solo quella dell’offesa, ma quella di una vulnerabilità che non sa difendersi. È il suono che rimane quando l’ingenuità viene derisa invece che protetta. Riabilitare la parola babbeo non significa legittimare il disprezzo: significa ridare valore a chi, in un mondo di furbizia dominante, continua a credere nella buona fede.
Una parola che giudica in silenzio
Il babbeo è l’anello debole della catena sociale. Quello che non capisce subito, che cade nel tranello, che si fida troppo. E per questo viene nominato così. Ma se c’è una parola che svela i meccanismi del potere quotidiano, è proprio la parola babbeo: perché è usata non da chi è forte verso chi è più forte, ma da chi si sente furbo verso chi appare lento, disarmato, semplice. Il babbeo è lo specchio rovesciato del cinismo. Non conosce i codici del doppio fondo. È trasparente in un mondo opaco.
Etimologia del disprezzo, semantica della fragilità
L’origine della parola babbeo non è certa, ma pare sia legata al latino balbus – balbuziente – e quindi, per estensione, a chi ha difficoltà a esprimersi. Come spesso accade, un limite percepito nella comunicazione si trasforma in etichetta di minorità. Ma balbettare non è essere stupidi. Fidarsi non è essere ingenui. E cadere non è essere deboli. La parola babbeo, letta con occhi nuovi, ci racconta quanto siamo crudeli con chi non sa indossare la maschera giusta.
Il babbeo come archetipo moderno
In ogni storia, c’è una figura che viene raggirata. A volte è un servo, a volte un sognatore, a volte un outsider. Il babbeo è il candido di Voltaire, il bonaccione dei racconti popolari, colui che inciampa nel mondo perché il mondo è pieno di ostacoli invisibili. Ma è anche colui che, proprio perché si espone, ci mostra ciò che preferiamo nascondere: che la furbizia è una maschera fragile, e che dietro molti trionfi c’è solo un’abilità nel travestire la paura.
Non è un insulto, è uno specchio
Riabilitare la parola babbeo è un atto di giustizia poetica. È riconoscere che nella nostra corsa all’efficienza, abbiamo ridicolizzato tutto ciò che non tiene il passo. Che nella nostra ossessione per il controllo, abbiamo disprezzato chi si lascia sorprendere. Eppure, quanti di noi sono stati babbei, almeno una volta? Quanti si sono fidati della parola sbagliata, dell’amore sbagliato, della promessa sbagliata? Il babbeo ci abita tutti, anche se non lo ammettiamo. Ed è per questo che la sua parola va rimessa in circolo, senza vergogna.
Una parola che contiene un invito
C’è una forma di intelligenza nella lentezza. C’è una forma di coraggio nella trasparenza. E c’è una bellezza disarmante in chi non sa mentire. La parola babbeo, se tolta dal sarcasmo, può diventare parola di tenerezza, di resistenza, di verità. Non un’etichetta, ma un richiamo: a essere meno scaltri, meno armati, meno rapidi nel giudicare. A riscoprire che a volte sbagliare è solo un altro modo per restare umani.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #211
🔤 Siamo stati tutti babbei. La differenza è che alcuni sanno farne un punto di partenza, altri solo un insulto da gettare sugli altri.