Quando il sistema vive dentro di te, non hai più bisogno di essere sorvegliato: sei tu a sorvegliarti, senza saperlo.
All’inizio credi di essere fuori. Pensi di aver compreso la trappola, di aver smascherato il meccanismo, di aver scelto una via alternativa. Ma quando il sistema vive dentro di te, non basta deviare. Non basta sparire. Non basta rompere col mondo esterno. Perché quel mondo, quel sistema che volevi lasciare, ha imparato a parlare con la tua voce. È entrato nei pensieri, nei gesti, nei sensi di colpa che provi quando rallenti, nei dubbi che ti afferrano quando stai per scegliere davvero.
Il sistema non ha più bisogno di costringerti: ti ha insegnato a farlo da solo. Ti ha dato una lista di ruoli, di obiettivi, di metriche con cui valutarti, e tu continui a usarle anche dopo averle rifiutate a parole. È questo il punto più difficile: quando il sistema vive dentro di te, ti illudi di averlo abbandonato mentre lo stai riproducendo. In ciò che pretendi da te stesso. In come definisci la tua utilità. In cosa scegli di nascondere. In chi scegli di deludere, pur di sentirti “giusto”.
È subdolo. Perché il sistema ti fa credere che il tuo disagio sia colpa tua. Che la tua fatica venga da un’incapacità personale. Ti fa cercare soluzioni all’interno della prigione, ti spinge a migliorare le sbarre, a decorarle. Ti dice che devi essere “la tua versione migliore”, ma quella versione è sempre conforme, sempre funzionale, sempre produttiva. Quando il sistema vive dentro di te, anche la tua ribellione è addomesticata. Anche il tuo silenzio è strategico. Anche il tuo dolore è monetizzabile.
Disertare non basta. Scomparire non basta. Il sistema si installa come un linguaggio, come un’abitudine, come un riflesso condizionato. Vive nel modo in cui reagisci alla vulnerabilità, nel giudizio che applichi ai tuoi fallimenti, nella paura di essere troppo lento, troppo opaco, troppo stanco. È lì, anche quando nessuno guarda. Quando il sistema vive dentro di te, lo vedi nella tua impazienza, nel tuo bisogno di fare qualcosa anche quando non c’è niente da fare, nel terrore di essere inutile se non produci, se non migliori, se non capitalizzi il tempo.

A volte ti scopri a misurare anche la tua lentezza. A chiederti se il tuo silenzio è “abbastanza spirituale”. Se la tua assenza è “ben raccontata”. Se il tuo margine è “narrabile”. Ma il margine non vuole narrazione. Vuole spazio. Vuole respiro. Vuole che tu smetta di performare persino la tua marginalità. Quando il sistema vive dentro di te, anche il tuo “fuori” rischia di essere scenico. Costruito. Approfondito solo quanto basta per essere venduto.
Ci sono giorni in cui ti fermi, ti guardi intorno, e non sai più cosa è tuo e cosa ti è stato inserito. Quel bisogno di approvazione — da dove viene? Quella spinta a “sfruttare il momento” — è davvero tua? Quel fastidio nel restare fermo, in silenzio — chi te l’ha insegnato? Quando il sistema vive dentro di te, ogni spazio diventa un campo di addestramento. Anche la spiritualità, anche la solitudine, anche il silenzio vengono ottimizzati, misurati, resi funzionali. Nessun luogo è davvero neutro se il tuo sguardo è già colonizzato.
Eppure c’è un modo per accorgersene. Un piccolo disallineamento. Una frattura lieve tra quello che fai e quello che senti. Ti ritrovi a portare avanti cose che non ti parlano più, a rincorrere obiettivi che ti lasciano vuoto. E lo senti. Una stanchezza che non è fisica. Un attrito che non nasce dal fuori. È come camminare con scarpe che non sono le tue. Allora capisci: quando il sistema vive dentro di te, l’oppressione si fa intima. Invisibile. Ma tangibile. Il peso non è fuori, ma nella forma che hai preso per sopravvivere.
Ti accorgi che ti giudichi sempre. Che anche i pensieri più intimi passano da una dogana invisibile. Che ti chiedi se stai pensando “nel modo giusto”. Come se esistesse un’etica dell’interiorità, un codice di condotta anche per ciò che senti. Ma chi l’ha scritto? Chi ha deciso che devi essere coerente, positivo, produttivo anche nel silenzio? Quando il sistema vive dentro di te, anche la tua introspezione diventa un algoritmo. Anche il tuo dolore deve avere un senso. Anche la tua libertà deve essere utile a qualcosa.

E quindi? Che si fa? Non si combatte il sistema con la forza. Non lo si smantella con l’odio. Si comincia con un atto minuscolo ma radicale: disimparare. Disimparare a reagire. Disimparare a spiegarsi. Disimparare a giudicarsi con lo sguardo che non è il proprio. Non è facile. Perché quando il sistema vive dentro di te, ogni tuo gesto sembra essere sotto osservazione. Anche nella solitudine, c’è una platea immaginaria. Anche nel silenzio, c’è una voce che ti chiede “a cosa serve?”
Serve a restare. Serve a riconoscere che non sei nato con queste griglie. Serve a ricordare che il tuo corpo, la tua lentezza, la tua incertezza non sono anomalie: sono territori da riprendere. Il sistema vive dentro di te finché tu continui a dargli cittadinanza. Finché pensi che valere significhi essere utile. Finché confondi la disciplina con la repressione. Finché non osi chiederti: e se mollassi la presa? Se smettessi di voler capire tutto? Se lasciassi che il vuoto mi parli, senza decodificarlo?
Ci sono atti invisibili che valgono più di mille proclami. Un no sussurrato. Una giornata spesa a non fare. Una risposta che non dai. Una domanda che tieni viva. Quando il sistema vive dentro di te, ogni gesto che non serve a performare è un sabotaggio. Ogni lentezza è un’interruzione. Ogni spazio non monetizzato è un altare.
Forse non riuscirai mai a liberartene del tutto. Forse il sistema resterà, come una cicatrice. Ma non deve decidere per te. Non deve abitarti senza permesso. Lo puoi vedere. Lo puoi disinnescare. Lo puoi lasciare lì, fuori dalla porta, mentre ti prendi cura di ciò che non genera profitto, ma senso.
📌 Uomo Fuori Traccia – Articolo #73
🧭 La voce che ti controlla non è sempre tua.